Ipertrofia e K prostata

Sandro La Vignera

UOC Andrologia ed Endocrinologia, AOU Policlinico Vittorio Emanuele di Catania, Università degli Studi di Catania – Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

 

IPERPLASIA PROSTATICA BENIGNA

Definizione
L’ipertrofia o iperplasia prostatica benigna (IPB), conosciuta anche come adenoma prostatico, consiste in un aumento di volume dovuto all’incremento del numero di cellule, che si sviluppa a carico della zona “di transizione” della prostata, ovvero della parte centrale attorno all’uretra prostatica. È un fenomeno legato all’avanzare dell’età, che col tempo determina una compressione dell’uretra prostatica, ostruendo il deflusso urinario.

Epidemiologia
L’IBP colpisce circa il 5-10% degli uomini di 40 anni di età, e fino all’80% degli uomini tra 70 e 80 anni (1). Tuttavia, il numero dei soggetti in cui l’IPB diventa sintomatica è circa la metà.
Nell’eziologia sono state escluse componenti ambientali, mentre si è ipotizzato il ruolo di fattori ereditari per l’aumentata prevalenza in parenti di soggetti colpiti dalla patologia.

Patogenesi
Il diidro-testosterone (DHT) e gli estrogeni giocano un ruolo fondamentale nell’insorgenza dell’IPB. La presenza degli androgeni è necessaria per l’instaurarsi dell’IPB, ma questi non sono necessariamente la causa diretta della patologia. Il DHT, un metabolita del testosterone, è un mediatore critico della crescita della prostata (2). L’importanza del DHT nel causare noduli iperplasici nella prostata è confermata dalle osservazioni cliniche in cui viene somministrato un inibitore della 5α-reduttasi. Questa terapia riduce notevolmente il contenuto intra-prostatico di DHT e conseguentemente il volume della prostata e i sintomi dell’IPB.
Inoltre, esistono evidenze circa il ruolo fondamentale svolto dalla sindrome metabolica. Tale patologia, infatti, sembrerebbe peggiorare la gravità dei sintomi e determinare un maggior incremento volumetrico delle ghiandola (3).
Infine, un aspetto critico è svolto dall’infiammazione cronica, reperto spesso presente in campioni tissutali di pazienti affetti da IPB. La presenza di flogosi, infatti, risulta associata non solo con maggior gravità dei sintomi e resistenza alla terapia medica, ma anche con maggior rischio di andare incontro alle complicanze (4).

Aspetti clinici e diagnostici
L’IPB si presenta con la comparsa di sintomi irritativi (pollachiuria, nicturia, urgenza minzionale, sensazione di incompleto svuotamento vescicale) e sintomi ostruttivi (mitto ipovalido, mitto intermittente, uso del torchio addominale). L’IPB può essere progressiva: l’incompleto svuotamento della vescica può portare a diverse complicanze, come la formazione di litiasi vescicale, diverticoli, infezioni urinarie ricorrenti, ritenzione acuta d’urine ed ematuria. I sintomi, ostruttivi e irritativi, vengono valutati usando il questionario dell’International Prostate Symptom Score, formulato per appurare la gravità della patologia.
L’esplorazione rettale, con la palpazione della prostata, può rivelare un marcato ingrossamento della ghiandola.
Esame diagnostico fondamentale è rappresentato dall’ecografia, sia sovra-pubica che trans-rettale (scansione da preferire per una più corretta stima del volume ghiandolare). L’ecografia inoltre può evidenziare la presenza di residuo post-minzionale, segno di una patologia in fase avanzata e consente di diagnosticare complicanze frequenti di una IPB trascurata, come diverticoli vescicali, calcoli, o sedimento nel lume dell’organo emuntore.
La uroflussimetria è certamente l’esame gold standard nei pazienti affetti da IPB, perché evidenzia se tale patologia è causa di ostruzione cervico-uretrale. L’esame fornisce informazioni importanti come il flusso massimo, il flusso medio e il tempo di svuotamento, parametri importanti sia nella diagnosi iniziale sia per verificare la risposta alle terapie.
Il PSA è spesso eseguito nei pazienti IPB per lo screening di una componente maligna coesistente.

Aspetti terapeutici
Per evitare le complicanze, è importante impostare precocemente una terapia medica.
Gli alfa-bloccanti (antagonisti dei recettori α1-adrenergici) procurano un sostanziale miglioramento dei sintomi. Vengono impiegate con successo molecole come doxazosina, terazosina, alfuzosina, tamsulosina o la più recente silodosina. Gli alfa-bloccanti rilasciano la muscolatura della prostata e del collo vescicale e aumentano la forza del flusso urinario, ma possono causare eiaculazione retrograda.
Gli inibitori della 5α-reduttasi (finasteride e dutasteride) sono un altro trattamento frequentemente praticato, in grado di agire riducendo il volume prostatico. Questi farmaci, in associazione agli alfa-litici, determinano effetti terapeutici efficaci e duraturi nel tempo, in maniera superiore alle singole monoterapie.
Gli anti-colinergici (ossibutinina, solifenacina, ecc) o i β3-agonisti (mirabregon) vengono spesso utilizzati nei pazienti affetti da IPB caratterizzati per lo più da una sintomatologia irritativa secondaria a iperattività detrusoriale. Agiscono, infatti, migliorando la sintomatologia e la qualità della vita.
In caso di fallimento del trattamento medico, può rendersi necessario un trattamento chirurgico. L’intervento chirurgico viene effettuato in pazienti con sintomatologia moderata o severa, che non rispondono al trattamento medico e con bassa qualità di vita. Esistono diversi tipi di intervento: tecniche endoscopiche, come la Resezione Prostatica Transuretrale (TURP) o l’Incisione Prostatica Transuretrale (TUIP), ma anche l’Adenomectomia Trans-vescicale “open” (ATV) (5).
La TURP è la procedura più utilizzata, effettuata mediante un resettore endoscopico, senza necessità di incisione. Il chirurgo, dopo aver visualizzato l’ostruzione, rimuove il tessuto prostatico mediante una sorgente elettrica che passa attraverso il resettore. La procedura dura circa 1 ora e può essere effettuata in anestesia spinale o generale.
Di recente acquisizione è la tecnologia laser KTP o GreenlightTM, praticata in pochi centri, che sfrutta una sorgente laser (532 nm) per vaporizzare e rimuovere il tessuto prostatico (6).

Bibliografia

  1. Vuichoud C, Loughlin, KR. Benign prostatic hyperplasia: epidemiology, economics and evaluation. Can J Urol 2015, 22 Suppl 1: 1-6.
  2. Favilla V, Cimino S, Castelli T, et al. Relationship between lower urinary tract symptoms and serum levels of sex hormones in men with symptomatic benign prostatic hyperplasia. BJU Int 2010, 106: 1700-3.
  3. Russo GI, Castelli T, Urzi D, et al. Connections between lower urinary tract symptoms related to benign prostatic enlargement and metabolic syndrome with its components: a systematic review and meta-analysis. Aging Male 2015, 18: 207-16.
  4. Russo GI, Vanella L, Castelli T, et al. Heme oxygenase levels and metaflammation in benign prostatic hyperplasia patients. World J Urol 2015, 34: 1183–92.
  5. Anderson BB, Pariser JJ, Helfand BT. Comparison of patients undergoing PVP versus TURP for LUTS/BPH. Curr Urol Rep 2015, 16: 55.
  6. Nair SM, Pimentel MA, Gilling PJ. A review of laser treatment for symptomatic BPH (Benign Prostatic Hyperplasia). Curr Urol Rep 2016, 17: 45.

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CARCINOMA PROSTATICO

Epidemiologia
Il carcinoma della prostata è il principale tumore maligno della prostata: negli uomini occidentali è il tumore più comune e la seconda causa di morte oncologica (dopo quello polmonare) (1). Tuttavia, la frequenza è largamente variabile nel mondo: è meno comune tra gli asiatici, più comune tra gli uomini di colore, mentre l’incidenza tra gli uomini europei è intermedia rispetto alle due precedenti popolazioni (2).

Eziologia
Le cause del cancro alla prostata sono tuttora sconosciute. Fattori di rischio accertati sono l’età e la familiarità. È molto raro sotto i 45 anni, ma diventa più frequente all’aumentare dell’età. Tuttavia, la componente genetico-familiare svolge un ruolo critico. Gli uomini con un familiare di primo grado affetto da carcinoma prostatico, hanno un rischio raddoppiato rispetto a quelli che non hanno avuto malati in famiglia.
L’adenocarcinoma acinare rappresenta l’istotipo più frequente. Nel 70% dei casi origina dalla porzione periferica, con tipica localizzazione posteriore. Fra le varianti, più rare, ricordiamo: il carcinoma squamoso, l’adenocarcinoma duttale, il carcinoma a piccole cellule, il carcinoma mucinoso, le neoplasie mesenchimali, come sarcomi o linfomi (molto rari).

Storia naturale
Il tumore prostatico inizialmente non causa sintomi. Quando aumenta di dimensioni, può causare un’ostruzione uretrale, con conseguenti difficoltà alla minzione.
Negli stadi più avanzati il tumore si diffonde a linfonodi e ossa. La diffusione linfonodale solitamente non produce sintomi; le metastasi ossee si sviluppano solitamente nelle ossa larghe, come pelvi e bacino o nelle vertebre e si manifestano con dolore osseo.

Stadiazione
Il grado di Gleason assegna un punteggio da 2 a 10, dove 10 indica le anormalità più marcate; il patologo assegna un numero da 1 a 5 (tabella 1) alle formazioni maggiormente rappresentate, poi fa lo stesso con le formazioni immediatamente meno comuni; la somma dei due numeri costituisce il punteggio finale.

Tabella 1
Scala di Gleason
Grado Descrizione
1 altamente differenziato
2 ben differenziato
3 moderatamente differenziato
4 scarsamente differenziato
5 altamente indifferenziato (cellule infiltranti)

Il tumore è definito ben differenziato se il punteggio è ≤ 4, mediamente differenziato se = 5 o 6, scarsamento differenziato se > 6. Quindi più basso è il punteggio, più basso è il grado del tumore. Il grado si riflette sulla possibile evoluzione:

  • grado 2-6: tumore generalmente a crescita lenta e con scarsa tendenza a diffondersi a distanza;
  • grado 7: tumore di grado intermedio;
  • grado 8-10: tumore molto aggressivo.

La stadiazione del carcinoma prostatico prevede la valutazione dei tessuti peri-prostatici, dei linfonodi e delle ossa, tramite lo studio di alcuni parametri clinici (risultato dell’esplorazione rettale, PSA, punteggio di Gleason bioptico, numero dei frammenti bioptici coinvolti). Solo nei casi di malattia avanzata (Gleason ≥ 8, PSA ≥ 10 ng/mL, malattia extra-capsulare) si effettuano scintigrafia ossea total-body e TC addome con mezzo di contrasto.
Alcuni nomogrammi, come le “tavole di Partin” (3), molto utilizzati nella pratica clinica sono affidabili per predire lo stadio locale del tumore prostatico in base ai seguenti parametri clinici: PSA pre-operatorio, punteggio di Gleason bioptico, risultato dell’esplorazione rettale.

Aspetti diagnostici
Lo screening comprende l’esplorazione rettale e il dosaggio del PSA e identifica una popolazione a rischio, in cui è necessario eseguire ulteriori esami, primo fra tutti la biopsia prostatica. Generalmente, lo screening viene eseguito dai 50 fino ai 75 anni, ma può essere proposto prima in caso di storia familiare di tumori alla prostata.
Il dosaggio del PSA misura il livello ematico di un enzima prodotto dalla prostata: livelli < 4 ng/mL sono generalmente considerati normali. Tuttavia, molte variabili influenzano il PSA: l’età del paziente, il volume prostatico o la concomitante presenza di altre condizioni come prostatite, IPB e traumatismi. A questo fine alcuni parametri possono aggiungere specificità al PSA, come il rapporto libero/totale del PSA, la PSA velocity o la PSA density. Di recente applicazione sono altri parametri che migliorano l’accuratezza del PSA nella diagnosi del tumore prostatico (4).

  • PHI (acronimo dall’inglese Prostate Health Index = Indice di salute prostatica): deriva dall’elaborazione dei dati relativi a tre valori ematochimici: PSA totale, PSA libero e proPSA. La sola valutazione del PSA totale è associata con le dimensioni della prostata, ma non è sempre in grado di distinguere se un aumento del PSA nel sangue è secondario a iperplasia benigna o alla presenza di un tumore. Una frazione del PSA libero, il proPSA e i suoi derivati % proPSA e phi (prostate health index) risultano invece meglio correlati alla presenza di una neoplasia prostatica. In particolare, nei pazienti con PSA totale compreso fra 2.5 e 10 ng/mL i valori di proPSA e PHI superiori all’intervallo di riferimento sono spesso associati alla presenza di una malattia clinicamente significativa. Un basso PHI indica un rischio inferiore di tumore, mentre un PHI alto può suggerire la necessità di sottoporsi ad una biopsia prostatica. In sostanza, il PHI offre ai medici una modalità di combinare e interpretare tre differenti esami ematici e rappresenta uno strumento per la valutazione del rischio di carcinoma prostatico.
  • 4k score (serum test): un test che combina un pannello con 4 callicreine prostata-specifiche in un algoritmo in grado di individuare prima dell’esecuzione della biopsia la percentuale di rischio individuale di avere un tumore della prostata aggressivo.
  • PCA3 (RNA-based urine test): è un gene che esprime un RNA non codificante. Il PCA3 è espresso solo nel tessuto prostatico umano e il gene è altamente iperespresso nel tumore della prostata.

L’antigene specifico prostatico è stato approvato nel 1994 per fare screening su uomini asintomatici con tumore della prostata. Assieme all’esplorazione rettale, il PSA ha incrementato di molto le possibilità di rilevare tumori prostatici. Nelle ultime 2 decadi la mortalità da questa patologia si è ridotta del 40% ed alcuni esperti ritengono che questo sia in buona parte merito dell’introduzione del PSA come test di screening di popolazione. L’European Randomized Study of Screening for Prostate Cancer (ERSPC) (5) ha randomizzato 182.000 uomini di età compresa tra 50 e 74 anni provenienti da 8 paesi europei, confrontando i pazienti sottoposti a screening con quelli non sopposti a screening. Come endpoint primario è stata usata la mortalità. Lo screening con PSA è stato quindi eseguito a intervalli di 2-4 anni. Dopo 13 anni di follow-up, il “rate ratio” per l’incidenza di cancro prostatico tra i pazienti sottoposti a screening è stato di 1.57 (IC95% 1.51-1.62) e quello per la mortalità di 0.79 (IC95% 0.69-0.91), indicando un vantaggio nella capacità di identificare il tumore e una ridotta mortalità. Il Number Needed to Screen è risultato di 781 (IC95% 490-1929): questo significa che sono necessari 781 test del PSA per prevenire un unico decesso da cancro prostatico; mentre il numero di diagnosi da effettuare per prevenire un decesso è risultato di 27 (IC95% 17-66). Lo studio sopra riportato risulta emblematico del grande dibattito che caratterizza l’utilizzo del PSA come test di screening. Nell’utilizzo del PSA, quindi, a fronte del beneficio primario (riduzione del 30% del rischio di sviluppare metastasi e del 21% della mortalità cancro-correlata), esistono alcuni svantaggi:

  • il 20% degli uomini che si sottopone a screening risulta avere un PSA fuori range di normalità;
  • il 75% tra gli uomini sottoposti a biopsia prostatica per riscontro di PSA elevato non ha una diagnosi di cancro (il tasso di falsi positivi appare quindi molto alto);
  • nella restante parte in cui invece si pone diagnosi di tumore, il 50-75% ha una malattia a basso grado (Gleason < 6);
  • le biopsie sono manovre invasive e potenzialmente associate a dolore, ansia e infezione (5% dei casi);
  • il trattamento di tutti i tumori della prostata presuppone una certa quota di sintomi e disturbi urinari, sessuali e intestinali;
  • lo screening per il tumore prostatico ha generato un grande incremento per la spesa sanitaria.

La biopsia prostatica è una procedura mini-invasiva, effettuata nei casi in cui si sospetti un carcinoma prostatico, quasi sempre ambulatorialmente in anestesia locale. I campioni di tessuto estratti vengono esaminati al microscopio per determinare la presenza di carcinoma, l’estensione (numero di frammenti coinvolti) e l’aggressività (Gleason score bioptico).

Aspetti terapeutici
Le armi a disposizione degli urologi per curare il tumore prostatico sono molte ed eterogenee:

  • prostatectomia radicale;
  • radioterapia o brachiterapia;
  • ormono-terapia;
  • sorveglianza attiva (osservazione rimandando una terapia radicale);
  • vigile attesa (osservazione con eventuale uso di terapie palliative);
  • ultrasuoni focalizzati ad alta intensità (HIFU);
  • crio-chirurgia;
  • chemioterapia;
  • combinazione di queste.

Ogni opzione presenta pro e contro, per cui la decisione finale va sempre discussa con il paziente. Tuttavia, in termini oncologici a lungo termine l’intervento chirurgico (prostatectomia radicale) risulta associato a maggiori benefici rispetto alle altre tecniche, come ad esempio la radioterapia (4). L’intervento al giorno d’oggi viene effettuato per lo più con tecnica video-laparoscopica o robotica. Tra le complicanze comuni della terapia chirurgica ricordiamo l’insorgenza di deficit erettile e di incontinenza urinaria. Tuttavia, la percentuale di insorgenza di deficit erettile può essere ridotta dall’utilizzo di una tecnica di salvataggio dei nervi erigendi (nerve-sparing).

Bibliografia

  1. Siegel RL, Miller KD, Jemal A. Cancer statistics, 2016. CA Cancer J Clin 2016, 66: 7-30.
  2. DeSantis CE, Siegel RL, Sauer AG, et al. Cancer statistics for African Americans, 2016: Progress and opportunities in reducing racial disparities. CA Cancer J Clin 2016, 66: 290–308.
  3. Eifler JB, Feng Z, Lin BM et al. An updated prostate cancer staging nomogram (Partin tables) based on cases from 2006 to 2011. BJU Int 2013, 111: 22-9.
  4. Jiandani D, Randhawa A, Brown RE, et al. The effect of bicycling on PSA levels: a systematic review and meta-analysis. Prostate Cancer Prostatic Dis 2015, 18: 208-12.
  5. Schröder FH, Hugosson J, Roobol MJ, et al. Screening and prostate cancer mortality: results of the European Randomised Study of Screening for Prostate Cancer (ERSPC) at 13 years of follow-up. Lancet 2014, 384: 2027-35.
  6. Wallis CJ, Saskin R, Choo R, et al. Surgery versus radiotherapy for clinically-localized prostate cancer: a systematic review and meta-analysis. Eur Urol 2016, 70: 21–30.